L’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato uno studio sui reati commessi da persone affette da disturbi mentali. Nelle 195 nazioni prese in esame l’Italia si piazza alla 93ª posizione.
Intanto però i media nazionali ci tartassano proponendoci continui episodi delittuosi compiuto da presunti affetti da inanità mentale, quasi a voler spingere l’opinione pubblica a credere che sia necessario rivedere le leggi sui centri di salute mentale, magari riaprendo le strutture manicomiali. Nel suo libro “Verbal warrior. Il potere delle parole per disinnescare il conflitto” lo psichiatra e criminologo Massimo Picozzi illustra questa tecnica mediatica, chiamata “media sensationalism”, che sfrutta la drammatizzazione delle notizie per catturare l’attenzione, promuovendo paure che spesso sfociano in una sorta di fobia sociale. Allora mi chiedo: ma siamo davvero di fronte a una necessità di controllo del tipo orwelliano?
E mentre l’opinione pubblica si lascia travolgere dalla narrativa del disagio mentale come pericolo da contenere, la politica sembra rispondere con una direzione altrettanto preoccupante. Nel centenario della nascita di Franco Basaglia, a quarantasei anni dalla storica legge n.180, il nostro Paese sembra virare verso un ritorno, seppur mascherato, ai manicomi. È questo l’allarme lanciato da decine di associazioni per la salute mentale, preoccupate dal disegno di legge n.1179/2024 “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale” firmato da Francesco Zaffini e altri 22 senatori di Fratelli d’Italia e presentato alla Commissione Affari Sociali del Senato.
Il ddl, criticato duramente dagli esperti e dalle associazioni come Unasam (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) e StopOpg, appare agli occhi dei suoi detrattori come un ritorno alla “psichiatria manicomiale”. Negli undici articoli, infatti, si afferma non solo l’esigenza di garantire assistenza alle persone con disagio psichico (e ci mancherebbe), ma si sottolinea anche, fin dall’inizio, la necessità di garantire l’incolumità del consesso sociale da chi è affetto da disturbi psichiatrici. Dunque, ancora una volta, la persona affetta da un disagio mentale viene percepita come “pericolosa”, non un malato ma un potenziale rischio da contenere con misure coercitive. Tra le novità del disegno di legge, vi è il raddoppio della durata dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso), che passerebbero da sette a quindici giorni, con possibilità di prolungamento. Secondo le associazioni e gli esperti, questo disegno di legge “sdogana” il ricorso a misure coercitive come la contenzione fisica e la farmacologica potentemente sedante, allontanando l’Italia dal modello di inclusione e supporto territoriale sancito dalla legge Basaglia e avvicinandola, pericolosamente, a quello degli istituti di internamento. “Sappiamo bene che la riforma Basaglia, pur positiva e ricca di successi, non è stata pienamente applicata,” scrivono le associazioni in una lettera aperta che ha già raccolto centinaia di firme di approvazione, “e oggi la rete di servizi per la salute mentale, spesso precaria, è indebolita da tagli e spinte privatistiche”.
L’aumento dei posti letto nei reparti psichiatrici e il passaggio della valutazione, nei casi criminali, dal Ministero della Salute al Ministero della Giustizia, inoltre, sembrano puntare a una politica che tende più alla separazione che all’integrazione. Gisella Trincas, presidente di Unasam, denuncia apertamente il rischio di una deriva verso la psichiatria manicomiale: “Si parla di ospedalizzare e separare i pazienti dalla società e dalla famiglia, non curarli nel loro contesto. Si tornano a evocare misure di sicurezza speciali insistendo sulla pericolosità sociale delle persone con disturbi mentali, quando le linee guida dell’Onu hanno cancellato quella definizione.
Una delle tematiche contenute nel ddl più preoccupante (o assurda!) è quella della prevenzione per i bambini e gli adolescenti in ambito scolastico, attraverso test e screening diagnostici per individuare tempestivamente eventuali disturbi mentali. Cito il testo: “promuove l’individuazione tempestiva dei disturbi mentali sin dalle fasi dell’infanzia, al fine di prevenirne o minimizzarne le conseguenze”.
“Questa proposta è pericolosa,” continua Trincas, “perché rischia di etichettare e isolare precocemente le persone in assenza di risorse adeguate per una reale presa in carico. Che senso ha fare screening se poi non ci sono servizi dedicati alla salute mentale per i più giovani?”
Oltre a una critica sui contenuti del disegno di legge, le associazioni denunciano anche il contesto di profondo abbandono in cui versa la sanità mentale in Italia. Nel nostro Paese, infatti, le risorse destinate a questo ramo della sanità sono tra le più basse d’Europa, e questo comporta una cronicizzazione dei problemi. I servizi territoriali, previsti dalla legge n.180, sono stati progressivamente indeboliti da anni di tagli e mancanza di fondi, lasciando molte famiglie e operatori in una situazione di solitudine e impotenza.
Questa condizione di fragilità si rispecchia anche nelle carceri, dove si registra un altissimo numero di detenuti con problemi psichiatrici e il più alto numero di suicidi dei paesi UE. Invece di promuovere misure alternative, il disegno di legge suggerisce la creazione di sezioni speciali nei penitenziari e il potenziamento delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), alimentando, secondo i critici, un clima di segregazione più che di cura.
Nel riflettere su questa proposta di legge, non si può ignorare la storia di Alda Merini, una delle più grandi poetesse italiane, che trascorse anni della sua vita internata in un ospedale psichiatrico. La sua voce “fragile e potente” ci ha restituito una testimonianza preziosa e dolorosa della vita in manicomio, un luogo dove il confine tra cura e abuso era spesso indistinto. Con versi che portano l’eco di quel mondo segregato, Merini denunciò come la società tendeva a isolare chi soffriva, a renderlo invisibile, quasi fosse più semplice relegare il disagio in un angolo oscuro, invece di affrontarlo. La poetessa dei Navigli descrisse il manicomio come una prigione dell’anima, un luogo dove l’identità si dissolve, i diritti vengono negati e la sofferenza individuale è amplificata dal trattamento. Questa esperienza non è solo un racconto personale, ma una testimonianza collettiva dell’effetto disumanizzante delle istituzioni chiuse, che rimuove la persona dal contesto sociale e familiare, privandola di dignità. Se le misure prospettate dal disegno di legge dei Fratelli d’Italia dovessero realizzarsi, rischieremmo di tornare a una situazione in cui la sofferenza psichica è considerata un rischio sociale, un’anomalia da confinare, anziché una condizione da comprendere e accompagnare. Riprendendo le parole della Merini, “nella vita di ognuno ci sono momenti in cui la follia diventa un diritto”, un grido che rivendica un’accettazione del disagio come parte dell’esistenza umana e della complessità individuale.
I dati dell’OCSE (“Health at a Glance: Europe 2022”) rivelano un quadro preoccupante per il nostro paese.
L’Italia investe solo il 3.4% della spesa sanitaria totale in salute mentale, un dato che stride significativamente con il 13% della Francia, l’11% della Germania e il 12% del Regno Unito. Questa disparità si riflette concretamente nel numero di professionisti disponibili: mentre in Germania operano 27 psichiatri per 100.000 abitanti e in Francia 23, l’Italia si ferma a 18.
Ancora più marcata la differenza nei posti letto psichiatrici: 128 per 100.000 abitanti in Germania, 87 in Francia, mentre l’Italia ne conta solo 34. Questo non significa necessariamente che servano più posti letto – la legge Basaglia ci ha insegnato l’importanza della deistituzionalizzazione – ma evidenzia la necessità di rafforzare i servizi territoriali alternativi.
Il paradosso italiano emerge chiaramente: siamo stati pionieri nella riforma psichiatrica con la legge Basaglia, ma non abbiamo supportato questa visione innovativa con adeguati investimenti e strutture. Mentre altri paesi europei hanno sviluppato sistemi integrati mantenendo un approccio non coercitivo, noi rischiamo di tornare indietro non per un fallimento del modello Basaglia, ma per non averlo mai pienamente implementato.
Come madre, mi preoccupa profondamente la direzione in cui sembra andare il nostro Paese. Ogni giorno vedo i miei figli crescere in un mondo sempre più frenetico, dove il disagio e la fragilità sono all’ordine del giorno e, invece di ricevere supporto, spesso vengono etichettati, isolati e visti come minacce. Quando si parla di tornare a una ‘custodia’ per chi soffre di disturbi mentali, non riesco a non pensare alla sorte che potrebbe toccare anche a loro, o a chiunque si trovi in un momento di fragilità.
Caro Raffaele, grazie per aver condiviso questi dati che contestualizzando il discorso. Abbiamo avuto il coraggio, più di quarant’anni fa, di immaginare un modello innovativo e rispettoso della dignità umana con la legge Basaglia, ma come osservi giustamente, non abbiamo mai sostenuto questo modello con investimenti adeguati. E se da un lato è vero che più posti letto non significano necessariamente un miglior approccio, è altrettanto chiaro che senza un solido sistema territoriale alternativo, la deistituzionalizzazione rischia di diventare solo un’illusione. Inoltre sono turbato, se non inorridito, dalla proposta degli screening sui bambini e gli adolescenti. I disturbi psichiatrici e psicologici purtroppo portano ad un insito stigma, che bollerebbe con una vistosa lettera scarlatta i nostri ragazzi. Questo non è né consentibile né accettabile.
Ti saluto con infinita stima