Misticismo e tradizione

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Capuzzelle, disegno di Antonio Nacarlo

Le festività legate ai defunti si rivelano in modi profondamente diversi a seconda delle culture. Da una parte abbiamo Halloween, con le sue radici celtiche e il suo sviluppo nell’immaginario anglosassone, che mette al centro un aldilà trascendente, misterioso e carico di simboli spaventosi. Dall’altra, la tradizione napoletana dei defunti, radicata in una visione immanente della morte, che vede l’anima del defunto come parte integrante della famiglia anche oltre la vita. Se Halloween evoca forze oscure e presenze sovrannaturali attraverso zucche, costumi e racconti horror, la millenaria tradizione partenopea mantiene un rapporto affettuoso e familiare con i defunti, i quali tornano simbolicamente a casa per continuare a prendersi cura dei loro cari.

Il termine Halloween è una contrazione semantica della frase in gaelico-scozzese “All Hallows’ Eve”, che si traduce in italiano “notte degli spiriti sacri”, e che cade, secondo l’attuale calendario, la notte del 31 ottobre. Nella cultura celto-druidica, in tale data, si onoravano i defunti pregandoli di proteggere la semina contro i rigori dell’inverno. Il rito, detto anche Samhain (festa dei semi), coincideva con il capodanno celtico. Il cerimoniale aveva inizio al sorgere della prima luna della stagione invernale e si protraeva fino all’alba successiva tra falò, libagioni, canti e balli. Nel 732 d.C, Papa Gregorio III istituì ufficialmente la festa cattolica di Tutti i Santi per il 1º novembre, scelta intesa a creare una continuità col passato, sovrapponendo la nuova festività cristiana a quella pagana del Samhain. La festa di Halloween come la conosciamo oggi nacque negli Stati Uniti agli inizi dell’Ottocento. Sotto la spinta del movimento romantico, che invitava a recuperare le tradizioni del passato e grazie al filone della nascente Letteratura gotica (che aveva per soggetto storie di fantasmi e d’orrore). Un rito ancestrale di purificazione si trasformò in un novello carnevale in salsa horror. Il simbolo della zucca svuotata e illuminata fu mutuato dalla leggenda di origine irlandese di Jack o’ Lantern, un fabbro ubriacone e peccatore condannato dal Diavolo a vagare per sempre nell’oscurità alla luce di un tizzone che, per non fare spegnere, Jack aveva posto in una zucca svuotata. L’usanza di andare di porta in porta a chiedere dolcetti proviene invece dalla pratica provenzale di epoca medievale di concedere ai poveri generi alimentari nel giorno dedicato ai defunti. Come visto un bel melting pot di usanze, di luoghi e epoche diversi, mescolate in salsa yankee.

Nell’intero meridione d’Italia, il culto dei defunti ha origini antichissime e radicate. Nella Neapolis greca, i culti in onore di “Ecate psicopompa”, la divinità capace di mettere in comunicazione i vivi e i morti, si celebravano di lunedì nell’area funeraria posta nel vallone egli Eunostidi (attuale borgo dei Vergini). Ufficialmente la Chiesa Cattolica istituì la Commemorazione dei defunti per il 2 novembre nel XIV secolo, chiamandola Anniversarium Omnium Animarum. Scelta intesa a creare una continuità col passato, sovrapponendo in modo sincretico le nuove festività cristiane a quelle pagane. Per tanti cittadini, ancora oggi, il giorno del lunedì è dedicato alla “visita alle anime del purgatorio”. Ci si reca infatti nelle diverse chiese che ospitano i resti mortali delle cosiddette “anime pezzentelle”: San Pietro ad Aram, Purgatorio ad Arco, Sant’Agostino alla Zecca nonché il più celebre Cimitero delle Fontanelle, solo per citarne le più famose. L’aggettivo “pezzentelle”, inteso come povere oppure senza parenti, deriva invece dal latino “petere”, cioè chiedere, impetrare. Il termine “refrisco”, che i napoletani riconoscevano come una preghiera o un atto in grado di “rinfrescare” l’anima purgante, avvolta altrimenti nelle fiamme, deriva dal nome della cerimonia funebre latina del “Refrigerium”.

Nella concezione partenopea,l’anima di una persona cara non smette di assolvere i propri obblighi affettivi con la morte. Anzi, trovandosi in una dimensione ultraterrena, potrà essere il primo e miglior mediatore per la sua famiglia verso l’Altissimo. Pertanto, la commemorazione dei defunti di inizio novembre è dedicata alla sfera più intima degli affetti familiari. Più simile alla festività latina dei Lari (antenati) che a quella dei Lemuralia (anime disperse).

I riti iniziano la sera del 31 ottobre accendendo un lume all’imbrunire e ponendolo fuori alla finestra. Servirà per indicare la strada di casa ai parenti defunti che in questa notte possono ritornare dai loro cari. Viene lasciata la tavola imbandita per “loro” che vorranno certamente rifocillarsi dopo l’impervio “viaggio attraverso il limine”. In passato restavano aperte quella notte anche le chiese. I trapassati potevano così nuovamente sentir celebrare la liturgia: la famosa “Messa p’e Muort” a cui nessun vivente poteva assistere, se voleva restare in vita. Il mattino del 2 novembre ci si reca a “rendere la cortesia” ai defunti. Come loro hanno visitato la casa dei vivi la notte precedente, i parenti fanno visita alla loro dimora eterna. Nei cimiteri pochi sono i volti tristi. I viali alberati, solitamente deserti, sono affollati come via Toledo. Un “tanatologico struscio” dove le comunità dei vivi e dei morti s’incontrano per celebrare un happening tra fiori e lampade votive. Il saluto tradizionale degli anziani ai propri cari recita: “ncè verimmo l’anno che viene, o ncè cuntramm primma sì vo’ Dio” (vengo a renderti visita l’anno prossimo, o ci rincontriamo prima nell’Aldilà, se Dio disporrà così).

Anche il menù della commemorazione è un pezzo della storia “gastonomico-rituale” della cucina partenopea. Dal primo al dolce ogni pietanza ha un “retaggio cultuale” antico o antichissimo: si inizia con zuppa di soffritto e involtini di fegatini con l’alloro. Entrambi si preparano con le frattaglie del maiale. Entrambi discendono dalla consuetudine di cibarsi con le interiora degli animali sacrificati nel rito latino dei “Refrigeria” (il banchetto che si teneva sulla tomba del trapassato). Per frutta melagrane, pomo sacro legato al mito della regina dell’oltretomba Persefone, che per averne mangiato un chicco fu costretta a rimanere nel regno dei morti, sposa prigioniera di Ade. Per dessert torrone dei morti, preparato solo in questa ricorrenza è di pasta morbida ed ha una forma che ricorda una bara. Per tale motivo è detto anche “o’ murticiello”. Oppure “l’ossa ‘e Muort”, torrone duro preparato con zucchero caramellato e farcito di mandorle e confettini detti “diavulilli”. In alternativa potremo gustarci un “cuppetiello di ammennole atterrate” (involto di carta contenete mandorle caramellate), dette così perché durante la preparazione vengono letteralmente sommerse dallo zucchero. Essendo questo un pranzo abbastanza caro, ed essendo stato sempre il popolo napoletano solidale con i meno abbienti, ci si inventò una strana usanza: la processione dei murticielli. La mattina del 1° novembre, migliaia di bambini, attrezzati con una cassettina di carta con sopra disegnato un teschio ed una croce, sciamavano per le strade. Chiedevano un obolo ai passanti al grido “Signurì ‘e Muort”. Tale consuetudine, raccontata dalla scrittrice Matilde Serao in un suo articolo per “il Mattino” agli inizi del Novecento e immortalata in magnifici scatti del maestro Mimmo Jodice negli anni Settanta, ricorda molto da vicino l’anglosassone “dolcetto o scherzetto”. Ma considerando che alla fine della questua il ricavato veniva donato ai bisognosi, i quali avrebbero potuto pure loro banchettare” pe’ resfrisco all’Anema ‘e tutt’e muort“, preferiamo quella in salsa partenopea.

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