La fine della Storia

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Era il 1992 quando Francis Fukuyama, politologo statunitense, pubblicò il suo famoso bestseller La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli), libro che, a quel tempo, suscitò un notevole dibattito, nel quale si presentavano e si confrontavano le tesi opposte dei suoi sostenitori e dei suoi detrattori. Cosa aveva voluto dire in realtà Fukuyama con il titolo provocatorio di “fine della Storia”? Bisogna tener presente che nel novembre del 1989, solo tre anni prima, aveva avuto luogo un avvenimento memorabile: la caduta del muro di Berlino, con la quale si concludeva definitivamente la seconda guerra mondiale, che pure aveva avuto termine nel 1945, ma della quale quella caduta sanciva la fine definitiva di quel conflitto planetario e della “guerra fredda”. Secondo Fukuyama, la malvagità dei regimi totalitari del XX secolo aveva influenzato il pensiero di molti intellettuali in maniera tale da rendere pessimistiche le loro previsioni e tesi politiche. Nello stesso tempo, asseriva Fukuyama, essi dimenticavano però che la caduta del muro di Berlino e le conseguenze, ovvero la dissoluzione dell’impero sovietico, rappresentavano ottime premesse per raggiungere il traguardo comune delle società occidentali: lo stato liberale e democratico, fondato sui principi fondamentali dei diritti dell’uomo. Il saggio diede la stura a infiniti dibattiti sul significato della caduta di quel simbolo, che da più di trent’anni rappresentava la sconfitta delle democrazie e una sorta di vittoria dell’estremismo comunista. In esso, Fukuyama sosteneva che la diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e lo stile di vita occidentale in tutto il mondo avrebbero potuto indicare la conclusione dello sviluppo socioculturale dell’umanità e divenire pertanto la forma definitiva di governo nel mondo. È lo stesso autore a esprimersi così, nell’introduzione del libro: “Le lontane origini del presente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato «Siamo forse alla fine della Storia?», scritto per la rivista The National Interest nell’estate del 1989. In esso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo e ultimamente anche il comunismo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto addirittura costituire «il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» e «la definitiva forma di governo tra gli uomini», presentandosi così come «la fine della Storia». Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da gravi difetti di irrazionalità che avevano finito per provocarne il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in democrazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, della Francia o della Svizzera non vi fossero gravi ingiustizie o gravi problemi sociali; ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’uguaglianza sui quali si fonda la democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano ad instaurare una democrazia liberale stabile e che altri finiscano addirittura per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia o la dittatura militare, non è invece possibile apportare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale”.

Il volume in questione è piuttosto ponderoso, superando le 400 pagine, ma le conclusioni in esso raggiunte, e le sue argomentazioni ne giustificano ampiamente la lettura, anche alla luce del fatto che sono trascorsi più di trent’anni dalla sua pubblicazione e che, nel frattempo, vi è stata una profonda evoluzione – spesso in senso negativo – di molti regimi politici del mondo, e noi che viviamo in questo tempo sappiamo a cosa ci stiamo riferendo. Evoluzione che, in opposizione alla visione piuttosto rosea di quell’Autore, sta portando a risultati del tutto opposti a quelli da lui ipotizzati, tali che hanno spinto un altro politologo moderno, Carlo Galli, a dare alle stampe un suo lavoro intitolato Democrazia, ultimo atto? [Einaudi, 2023] Galli prende nota del fatto che ormai gli studi sulla democrazia che ne mettono in discussione la sopravvivenza, «sono legione», e che descrivono una democrazia sfigurata, latitante, collassata, dissolta ma che, secondo l’autore, sebbene essa in Occidente sia a rischio, nel tempo stesso può essere rivitalizzata attraverso un forte investimento politico.

Ma, prima di proseguire è forse necessario porsi una domanda cruciale alla quale non molti sono quelli che vi pongono l’attenzione che essa merita. In primo luogo, si deve definire la politica: fra i due estremi della tesi di Voltaire (politica è il mezzo attraverso il quale persone senza morale comandano su persone senza memoria) e di Carl Schmitt (politica è essenzialmente il rapporto amico/nemico), la politica dev’essere in effetti intesa come la convivenza umana dal punto di vista dei rapporti di potere (di comando e obbedienza, di inclusione ed esclusione, formali o informali, materiali e ideologici) che necessariamente vi si instaurano. Orientare alla democrazia quei rapporti è l’intento moderno di organizzare la politica in varie forme, improntate a libertà, uguaglianza, trasparenza: democrazia è lo sforzo di far coesistere il potere con l’energia dell’autoaffermazione individuale e collettiva (la libertà), con l’intento di limitarne l’eccesso (l’uguaglianza), e con la finalità di istituire le strutture e le pratiche di una convivenza che le soggettività possano riconoscere – per quanto possibile – come opera propria (la trasparenza).

Rimettendo i piedi per terra, dopo queste considerazioni che, pur corrette, si librano più in alto di quanto la media dei cittadini possa comprendere, si deve prendere atto che la democrazia, sebbene come disse Churchill sia «la peggior forma di governo possibile a eccezione di tutte le altre», è l’unico sistema di governo che ha consentito fino ad ora a moltitudini di cittadini di poter vivere nella libertà, nel benessere, nel progresso. Tutte conquiste che, purtroppo, stante la immaturità implicita per natura nella specie umana, hanno dovuto pagare un prezzo, a volte un prezzo molto alto, ma dovuto proprio al fatto che gli esseri umani vogliono nel contempo due cose di per sé stesse contrapposte: da una parte quei benefici di cui abbiamo appena parlato, ma trascurando del tutto qual era lo scotto, fino a quando non ci si è resi conto di essersi spinti troppo avanti e di avere messo in pericolo non solo la democrazia, ma la vita stessa del pianeta e dei suoi abitanti. È estremamente significativo ciò che, in occasione di un discorso tenuto nel 1978 all’università di Harvard, negli Stati Uniti, disse Aleksandr Solženicyn parlando delle democrazie occidentali in rapporto al sistema di potere sovietico: «La persistente cecità, che nasce da un illusorio senso di superiorità, induce l’Occidente a credere che tutte le vaste zone in cui è diviso il nostro pianeta debbano seguire uno sviluppo che le porterà a sistemi analoghi al suo. E che tutti gli altri mondi sono solo temporaneamente trattenuti dal lanciarsi sulla via della democrazia pluripartitica di tipo occidentale, e dall’adottare il modo di vita dell’Occidente … Nessuno, spero, vorrà sospettarmi di criticare il sistema occidentale per promuovere al suo posto l’idea del socialismo reale. Ma se mi chiedessero di proporre al mio paese l’Occidente come modello, dovrei rifiutare con franchezza. Il sistema occidentale, nel suo attuale stato di esaurimento spirituale, non presenta per noi alcuna attrattiva. La trasformazione della nostra vita nella vostra significherebbe per certi aspetti un’elevazione, ma per altri e ben più importanti aspetti significherebbe invece un abbassamento». Ed è a questo punto del suo intervento che il grande premio Nobel per la letteratura fa il suo affondo: «Un’anima umana, piagata da decenni di violenza aspira a qualcosa di più elevato, di più caldo, di più puro della nauseante pressione della pubblicità, dell’abbrutimento della televisione e dei clamori di una musica insopportabile». E non dimentichiamo che Solženicyn pronunciò quel discorso quando ancora non esistevano gli smartphone, la diffusione globale di internet, e tutta quell’elettronica moderna che spesso rende la vita insopportabile anziché migliore.

Quindi è questo che le democrazie occidentali devono imparare per non soccombere, e cioè che ad un certo punto ci si deve fermare, proprio come affermò Solženicyn in conclusione del suo intervento: «Il costante desiderio di possedere sempre di più, e sempre di meglio, e la lotta accanita che questo comporta, imprimono su molti visi occidentali il marchio della preoccupazione e perfino della prostrazione. Ma veramente la vita dell’uomo e l’attività della società devono essere valutate in termini di sviluppo materiale? Ed è ammissibile perseguire questo sviluppo a detrimento della vita interiore?» [Piergiorgio Odifreddi, C’è del marcio in occidente, Raffaello Cortina Editore, 2024] Compito della politica, quindi, nelle liberal democrazie che vogliono sopravvivere, è porre di fronte ai cittadini i vantaggi, ma anche gli svantaggi di un liberismo esasperato, in fondo non produttivo. E, come dice Galli nel suo libro: «Se la politica è un dramma, il suo ultimo atto, cioè lo stato presente delle democrazie, non ne è ancora l’atto finale, lo scioglimento, il compimento; è anzi il momento in cui il dramma mostra la propria persistente attualità; in cui non solo la critica, ma anche l’azione – che del dramma è la radice etimologica greca – si staglia come un dovere singolare e collettivo ancora incompiuto. Un dovere prima di tutto verso sé stessi. Ma soprattutto, è necessario che gli individui vogliano ancora la democrazia, con tutte le sue opacità e contraddizioni».

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