“I can’t breathe”
Questa storia non è stata scritta per chi ha voglia di sorridere. Non si parla di un Paese immaginario e dei suoi politici da operetta. E non è neppure un racconto in cui si gioca con le parole per nascondere il finale a sorpresa: la fine è nota!
“I can’t breathe”
Palcoscenico del dramma sono gli USA di Trump, un presidente eletto con la stessa leggerezza e incoscienza che già altrove aveva portato un altro tycoon alla guida di un governo nazionale, e che twitta sui social con la superficialità tipica degli sprovveduti avventori del bar dello sport. In quella porzione d’America che corre lungo le sponde del Mississippi, nel territorio che una volta era dei Sioux, si è consumata una tragedia. È una storia, l’ennesima, di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, nello scenario di un far west in cui vige ancora la legge del più forte, o meglio di chi, investito dell’autorità che gli conferisce una divisa, abusa del proprio potere ritenendo di essere al di sopra della legge.
“I can’t breathe”
Così capita che nel giro di pochi minuti un controllo di routine delle forze dell’ordine trasformi una città degli Stati Uniti in una jungla, un poliziotto in predatore e un fermato in vittima. Le immagini trasmesse sui siti giornalistici di tutto il mondo sono di una crudezza inaudita e, per quanto incruente, visto che non viene versata neppure una goccia di sangue, stringono comunque lo stomaco in una morsa violenta.
“I can’t breathe”
Un uomo bianco, con la divisa da poliziotto, preme il suo ginocchio sinistro sul collo di un uomo nero, ammanettato e steso sull’asfalto a pancia in giù. Intorno altri uomini in divisa guardano la scena senza intervenire. Niente armi, niente conflitto a fuoco, nessuna colluttazione: l’uomo immobilizzato a terra non è più in grado di nuocere a nessuno.
“I can’t breathe”
Eppure il poliziotto continua a premergli il collo con il ginocchio, con tutto il peso del suo corpo, quasi in posa, come un cacciatore che ha abbattuto la sua preda e si lascia immortalare in una foto ricordo.
“I can’t breathe”, “Non respiro” ha supplicato più volte George Floyd, un quarantaseienne afroamericano, prima di morire asfissiato sull’asfalto di Minneapolis, lunedì scorso, durante un banale controllo di polizia. Una morte che, in un solo colpo, ha tolto il respiro a un uomo e ha soffocato nell’ignoranza il suo assassino.